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Legge di bilancio 2024: i Meloni sono secchi

Legge di bilancio 2024: i Meloni sono secchi

La legge di stabilità che il governo deve approvare entro la fine dell’anno non può fare altro che prendere atto della realtà: i margini di manovra sono finiti e i partiti di maggioranza devono ammettere di aver raccontato balle.

Intanto, il rimbalzo dell’economia che ha seguito il crollo pandemico si è esaurito. Dopo l’esangue saltino del primo semestre, il 2023 si avvia a chiudere con i motori fermi e la crescita a zero. Il bilancio annuale farà con fatica +0,7%. Nel 2024 le previsioni governative di un +1,2% sono considerate da tutti troppo ottimistiche.

Gli unici dati destinati a crescere sono il livello dei prezzi, l’inflazione ed il debito pubblico. E’ vero che i dati Istat di ottobre segnalano una forte frenata dei prezzi (+1,8%), il che prelude ad una recessione ormai considerata inevitabile. Ma in ogni caso l’inflazione maturata nella prima parte dell’anno e quindi già consolidata supera il 5%. Tutto questo non sembra ancora aver convinto la BCE (Banca Centrale Europea) a fermare la corsa al rialzo dei tassi di interesse, che sono saliti da zero al 4,50% nell’arco di 16 mesi.

Una vera manna per i bilanci delle banche (quelle italiane hanno fatto 25 miliardi di profitti nel 2022 e ne faranno ancora di più nel 2023). Situazione invece molto pesante per le famiglie, taglieggiate da rate di mutuo sempre più insostenibili (un terzo ha tassi variabili), così come per le piccole e medie imprese, che non reggono e chiudono le attività. Gli extraprofitti però restano intoccabili.

Ci aveva provato Draghi con le aziende energetiche, che con la guerra in Ucraina avevano raddoppiato i prezzi e i ricavi, in seguito al rialzo di petrolio e gas. Dei 10 miliardi messi in conto nel 2022, ne sono arrivati meno di un quarto: norma scritta male, si disse, colpa dei tecnici!

Più di recente, ad agosto, il governo Meloni ha tentato un blitz sugli extraprofitti bancari: obiettivo incassare tre miliardi. Nell’arco di due mesi, i banchieri sono scesi in campo con la cavalleria (ABI, UE, Forza Italia, i “mercati”) e sono riusciti a polverizzare la norma: potranno scegliere tra pagare la tassa o aumentare le riserve a patrimonio in misura pari a 2,5 volte il dovuto. Ovviamente tutte le banche hanno scelto l’opzione B e lo Stato non vedrà un centesimo.

Ma torniamo alla legge di stabilità 2024, perché se non pagano le banche e le aziende che fanno utili, dove si vanno a prendere i soldi? Nelle tasche di chi non ha scelta, ovvio. A noi non vengono concesse “opzioni B” …

L’ingloriosa fine del melonismo parolaio è dovuta a ragioni ben precise: la situazione debitoria del paese, che viaggia a testa bassa verso i 3.000 miliardi di euro di debito totale, di cui 80 creati nell’ultimo anno dal nuovo governo. Se il rapporto debito/PIL è rimasto ancorato alla soglia “accettabile” del 140%, è solo perché l’impennata inflazionistica ha fatto decollare il denominatore, cioè il PIL nominale, senza che si registrasse alcuna crescita reale.

In ogni caso anche qui la “luna di miele” è ormai consumata: il prossimo anno si ritorna sopra il 142%, perché il processo di riduzione si è prima fermato e poi ha invertito la direzione, per salire di nuovo. Il Deficit 2023 chiuderà sopra il 5,3% perché la scelta di contabilizzare nell’esercizio in corso tutti gli oneri del superbonus (in linea con il suggerimento europeo) consente di scaricare sui governi precedenti la responsabilità dello sforamento; poi nel 2024 il deficit calerà un po’, verso il 4,3%, ben lontano dal target obiettivo previsto dagli impegni precedenti.

È anche per questo che la tagliola del rating costringe il ridicolo Giorgetti a fare il tagliatore di spesa (mentre il suo capo vorrebbe mettere 12 miliardi inesistenti sul ponte di Messina): S&P e Ficht hanno confermato la valutazione BBB, ma non è detto che Moody’s faccia altrettanto nei prossimi giorni. E poi il 21 novembre si esprime la Commissione Europea: il rischio di sculacciamento è alto e quindi nessuna alzata di ingegno. Manovra blindata ed emendamenti negati.

Ma perché il governo non ha spazio di manovra? Secondo Il Sole 24 Ore le risposte sono tre: gli effetti del superbonus; il peso delle pensioni; il peso degli interessi.

Il giornale dei padroni omette di parlare del peso dei profitti: per la stessa Commissione Europea, due terzi della marea inflazionistica che ha eroso il potere d’acquisto di lavoratori e consumatori sono attribuibili al forte incremento dei margini applicato dalle imprese in questi ultimi due anni. Partendo da fattori reali (la strozzatura dei rifornimenti, il rialzo dell’energia, l’impennata dei prezzi delle materie prime e dei trasporti), le aziende hanno sfruttato la situazione praticando aumenti di prezzo dei prodotti e servizi offerti, senza alcuna ratio diversa dal proprio interesse.

Per frenare l’inflazione le banche centrali hanno alzato i tassi in modo esorbitante, ma questo non ha avuto effetto, proprio perché agiva sugli effetti e non sulle cause. Le conseguenze sono state devastanti per i bilanci più indebitati, come quello dello stato italiano: l’onere per interessi è passato da 80 a 96 miliardi su base annua e si prevede che toccherà 110 miliardi nel 2026. Indebitarsi diventa più caro, nel momento stesso in cui la BCE riduce il proprio intervento, limitandosi a rinnovare i titoli che vanno in scadenza. Per fare nuovo deficit occorre trovare clienti nuovi e convincerli a finanziarci.

Ecco perché hanno buttato nel cesso tutte le promesse, si sono ridotti a prorogare le misure di Draghi, hanno tagliato il superbonus (che in effetti ha impegnato 100 miliardi per ristrutturare a spese dei contribuenti, tra le altre cose, le villette dei benestanti) e stanno persino peggiorando la legge Fornero.

Andando in ordine, possiamo dire che dei 24 miliardi della manovra, almeno 10 erano già “prenotati” dalla riduzione del cuneo fiscale: -7% per chi sta sotto 25.000 euro lordi l’anno e -6% per chi sta sotto 35.000 euro. Il guaio è che sono misure già in atto, da luglio, e che la busta paga dei lavoratori resterà quella che è, almeno fino alla fine del 2024, quando la norma scadrà e si dovrà rinnovare per non fare troppo arrabbiare i 14 milioni di interessati. Una misura che restituisce qualcosa in busta paga, ma a carico dell’INPS e, in ultima analisi, del bilancio dello Stato, con l’unico obiettivo chiaro di esentare le imprese da richieste salariali più pressanti. Un sostegno ai profitti, in pratica.

E lo stesso ragionamento vale per il primo pezzo della riforma fiscale, che unifica le prime due aliquote al 23% fino a 28.000 euro: un altro insignificante incremento di stipendio (fino a 260 euro annui massimi) che però costa almeno 4 miliardi al bilancio statale. Questo mentre i più benestanti tra le Partite Iva si vedono prorogare una flat-tax al 15% che consente loro di risparmiare anche 8/10 mila euro l’anno, alleggerendo Irpef e addizionali locali, fino a livelli ridicoli.

Poi ci sono le risorse per gli aumenti dei contratti pubblici, che vengono spacciati come incrementi, ad esempio della spesa sanitaria. Così è per 2,4 miliardi da destinare al rinnovo del contratto di medici, infermieri e tecnici, mentre gli altri 600 milioni di questo capitolo di spesa vengono giustificati come strumenti per abbattere le liste d’attesa, quando in realtà si traducono in aumenti delle dotazioni regionali per le convenzioni con i privati. Soldi pubblici trasferiti alla sanità privata, dopo 37 miliardi di tagli effettuati negli anni, che si sono tradotti in un amento pressoché identico della spesa che i malati hanno dovuto tirare fuori di tasca propria per curarsi. Un business in crescita esponenziale.

Tuttavia, è il capitolo previdenza che evidenzia i paradossi più scandalosi dello scarto tra propaganda e realtà. Da Salvini che inseguiva, con le sue truppe, la Fornero a casa sua, siamo passati ad un esecutivo che rischia di farcela rimpiangere. Abolita quota 103, allungate di mesi le finestre di uscita, ridotto il possibile utilizzo di Ape sociale e Opzione Donna, ripristinati gli allungamenti della speranza di vita, peggiorati i parametri per poter accedere alla pensione nei casi previsti: il governo usa le pensioni come bancomat per tagliare la spesa e recuperare risorse. L’esempio più clamoroso è naturalmente la manovra che taglia ulteriormente l’indicizzazione delle pensioni oltre quattro volte il minimo, rendendo strutturale e crescente la perdita del potere d’acquisto degli assegni.

Misure che incidono sui trattamenti e riducono la domanda di beni e servizi, rendendo sempre più asfittica la politica economica dell’esecutivo, che va all’assalto di qualunque misura redistributiva esistente. Mentre si smantella il reddito di cittadinanza, si trasferiscono miliardi di euro alle imprese che assumono under 36, con l’esenzione triennale dei contributi previdenziali (quadriennale nelle regioni del sud); poi c’è una regalia statale pari al 60% del primo stipendio annuo, se si tratta di Neet iscritti a Garanzia Giovani e varie altre prebende che dovrebbero convincere le aziende a stabilizzare gli sfruttati in via definitiva. Questi benefit sono spesso cumulabili tra loro, per cui fare impresa è davvero come fare bingo.

Naturalmente la massa di finanziamenti pubblici che viene buttata a pioggia sulle imprese private non è vincolata ad alcun indirizzo di politica industriale, mirato ad esempio alla transizione energetica, ad una risposta al cambiamento climatico, ad una strategia di salvaguardia del territorio o dell’habitat naturale. Si presume che il mercato si regoli e che scelga la strada migliore, che il più delle volte si traduce nel “prendi i soldi e scappa”.

Non avremo dunque sorprese nel vedere un netto peggioramento della condizione economica e della situazione sociale: la legge di stabilità punta a consolidare i rapporti di forza dati, difendere l’evasione fiscale ed il sommerso, pagare dazio al proprio bacino elettorale, garantire il patrimonio degli abbienti e i capitali degli investitori interni ed esteri.

Gli spazi per realizzare simultaneamente tutti questi obiettivi sono però sempre più ridotti. E le condizioni di indigenza e di insopportabilità crescono nel tessuto sociale. Quando potremo dire: la misura è colma?

Renato Strumia

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